Il nuovo che c’è nel vecchio. Dove andremo a finire?
Alle prese con gli ostacoli imposti dalla crisi economica – poche opportunità di lavoro, orizzonti incerti, diffusa precarietà- i Millenials sembrano però in grado di elaborare atteggiamenti di superamento dei limiti che hanno buone probabilità di diventare un modello anche per altre e ben più elevate fasce di età. Non siamo di fronte al “vogliamo tutto” delle generazioni di padri e nonni, quanto piuttosto a un “possiamo molto”, senza la componente visionaria e rivoluzionaria che aveva caratterizzato quegli anni lontani. Non è neanche superomismo o sfrenata presunzione o mero far di necessitò virtù, quanto piuttosto una visione nuova sostenuta da più fattori.
Non sei ignorante perché tanto online trovi tutto; non sei brutto perché con relativamente poco puoi migliorarti; non sei solo perché i social ti accompagnano; se il lavoro che hai non ti piace, non disperare perché tanto, volente o nolente, è una fase di passaggio; non sei anonimo perché puoi ritagliarti la tua notorietà virtuale. Ancora: ciò che non puoi possedere lo puoi comunque sperimentare condividendolo (sharing economy) o trovare a un prezzo che, prima o poi se esplori il sito giusto, potrebbe diventare abbordabile. Fino al sogno estremo dell’eterna giovinezza e della salute inattaccabile che attraversa sottotraccia le palestre del fitness e i ricettari veg. E si pensi infine all’impatto sull’immaginario comune delle Paraolimpiadi.
Un profluvio di positività – i Millenials sono più ottimisti di chi li ha preceduti ci dicono le ricerche – che un po’ rallegra e un po’ sconcerta ma di sicuro è contagioso. Vero che sul futuro del paese il tasso di fiducia non è così elevato, ma questo scarto può anche essere letto come una progressiva presa di distanza dal destino comune, e quindi per esempio dalla politica, che porta a scindere le sorti individuali da quelle collettive.
Contagioso, dicevo: l’impressione è che sbarazzarsi dei limiti sia un sogno anche per chi non ha più trent’anni. Gli anziani sorridenti e glamour di alcuni spot testimoniano che questo non è un paese per vecchi e, se per l’impietosa anagrafe lo sei, basta che ti formatti da giovane, perbacco! È forse la prima volta che una generazione rinuncia – ovviamente con alcune eccezioni – a fare testimonianza e si prende a modello quella che la segue. Un fenomeno che si iscrive nel generale indebolirsi del gap generazionale in atto da tempo, con conseguenze complesse e ampiamente studiate per esempio sulle dinamiche familiari.
Limitiamoci ai consumi, tralasciando le inquietanti riflessioni su un mondo che, nelle sue fasce di età più elevate, aspira ad essere monogenerazionale: come dimostrano anche le ricerche condotte da Kkienn, le differenze tra Millennials e Baby Boomers esistono ma a ben vedere segnano scostamenti talvolta sensibili ma raramente distanze incolmabili. Non è azzardato prevedere che nell’arco di pochi anni su temi quali gli stili alimentari o il rapporto con le nuove tecnologie vecchi e giovani si troveranno fianco a fianco. La docilità con cui gli over 50 si adattano o cercano di adattarsi ai cambiamenti li iscrive, a una lettura superficiale, nel capitolo degli imitatori dove si affollano anziani terrorizzati dall’idea di esserlo, fautori del nuovo a prescindere, nonni entusiasti dei nipoti o, più semplicemente, persone che hanno interiorizzato l’idea dell’instabilità del mondo. (Sopravvivono e vanno in altra direzione nicchie, anche consistenti, di irriducibili, composte da chi, per ragioni di salute o di cultura, non ce la fa o se ne infischia di stare al passo con i tempi).
Forse su questo segmento di popolazione non tutto è stato detto: mentre sui Millennials si affollano riflessioni e studi mirati a coglierne le evoluzioni, sui loro paradossali epigoni con qualche decennio in più sulle spalle sembra prevalere la convinzione di saperne già abbastanza avendoli indagati quando erano giovani e portatori di novità; li si considera appunto degli imitatori, più o meno goffi, utili per misurare il tasso di penetrazione della metamorfosi al di fuori di chi per primo la incarna. L’errore, se c’è, sta nell’immaginare fermi questi gruppi di età più elevata, come accadeva alle generazioni mature del passato, semmai da schiodare dalle loro abitudini consolidate per convincerli a provare qualche nuovo prodotto o servizio o ad aprirsi a qualche esperienza inedita. Non basta, perché anche il loro modo di essere anziani o vecchi sta prendendo una piega inedita. Non basta perché si rischia di non cogliere il senso della trasformazione: immaginarli sempre e solo come nonni felici, pensionati agiati e dinamici, saggi parenti li condanna dentro uno stereotipo, e quindi dentro un limite, in cui probabilmente stanno stretti e dove loro per primi non si riconoscono più. Sono vecchi alternativi, come un tempo erano stati giovani alternativi, e si stanno inventando.