A volte sembra che il mondo in questi ultimi anni si sia svegliato dopo essersi sopito in una stasi simile a quelle che nei film degli anni 80 mostrava sedicenti astronauti dentro vasche criogeniche, atte a preservare gli organi vitali di viaggiatori del tempo e dello spazio.
Solo che nel nostro caso non ci sono stati salti temporali così netti, non si sono percorse distanze così lunghe, da giustificare tutto questo stupore dei Baby Boomers e della Generazione X verso un mondo che oggi, a molti analisti, sembra così diverso da quello in cui loro sono cresciuti, da sembrare alieno, o ancora meglio “Mutante”.

Eppure eccoci qui, oggi, all’alba di una nuova era che alcuni, come Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, ha già ribattezzato la “IV Rivoluzione Industriale”.
Eccoci in un nuovo mondo, popolato da creature misteriose, per alcuni mistiche, che prendono nomi strani come “Millennials”, “Prosumer”, “Vlogger”, “Startupper”, intraducibili in altre lingue se non per una velleità linguistica, che nulla aggiunge alla narrazione. Attori di un mondo indefinito che usano strumenti ancora più stravaganti come Instagram, Snapchat, Kickstarter, Tinder, Skyscanner e tecnologie avveniristiche che però devono occupare poco spazio per stare in un hashtag o in un tweet:  A.R., A.I., V.R., EXO. Anche se, a dirla tutta, nel mondo che verrà il derby tra immagini e parole  ha visto una apparente vittoria della squadra più colorata e animata e le parole hanno deciso di adattarsi trasformandosi in emoticon, abbreviazioni, locuzioni emotive in cui solo le citazioni hanno aumentato il loro valore e la loro frequenza nelle nostre agorà virtuali.

E allora tutti ci illuminiamo d’immenso, immersi in una cultura che alcuni adorano, altri combattono, una parte utilizza senza comprendere e la moltitudine accetta, facendola propria.
Un selfie dopo l’altro.

Arrivati a questo punto potreste chiedervi “ma tu da che parte stai?” oppure “vabbè, ma cosa ci vuoi dire?” ma la domanda da farsi, tutti insieme è: “Perché”?
Perché solo ad un certo punto ci siamo accorti che più del 50% della popolazione mondiale è composta da persone sotto i 26 anni quando prima cantavamo “siamo solo noi” con le nostre storie e identità novecentesche? Perché ad un certo punto abbiamo deciso di affrontare questa enorme novità come un “problema da risolvere” e non come un’opportunità da cogliere? Perché buona parte della società si è trovata spaesata di fronte ad un fenomeno, che possiamo chiamare volgarmente “cambiamento” che, da sempre, come dice qualcuno più saggio di me, della vita è l’unica costante? Perché abbiamo affrontato questa nuova realtà, che stentavamo a considerare reale fino a quando non ci è scoppiata in faccia, con stratagemmi e soluzioni che già in passato non ci hanno portato risultati positivi e che, per quanto ostentati, non resisteranno alla prova del tempo?

Perché il nostro Elefante nella stanza oggi si chiama “Millennial”?
Perché lo abbiamo ignorato fino a quando abbiamo potuto, anziché considerarlo un pares inter pares a cui dare conto, diritti e responsabilità; poi lo abbiamo trattato come un prodotto o ancora peggio come una scatoletta a cui mettere un’etichetta e spedire al migliore offerente, senza curarci del fatto che il contenuto di questa scatola non era una omologata versione della stessa storia, bensì un mondo fatto di persone diverse, fuori dall’ordinario, che non pensano e non agiscono nello stesso modo ma in tempi e modi che rendono oggi catalogazione una perdita di tempo per addetti ai lavori, desiderosi di dare un nome alle cose, senza pensare che stiamo parlando di “persone”. Esseri umani che non nascono in camere stagne bensì in un mondo in cui reale e digitale non hanno più distinzione, in cui lo spazio tempo è stato piegato al continuo presente e in cui viaggiare è sempre più conveniente e l’unica scelta a tempo indeterminato è quella di vivere, imparando ogni giorno e adattando la realtà o adattandosi ad essa.

Abbiamo usato un passaggio temporale, la soglia del nuovo millennio, per definire una generazione intera, a cavallo di quel traguardo. E abbiamo cercato di dire la nostra su di loro e di descriverli come in un gioco di società in cui si deve indovinare il personaggio senza sapere di chi stiamo parlando.
Abbiamo usato tanta retorica, un po’ meno intelligenza. Eppure erano davanti a noi, erano tanti, erano pronti a parlarci di cosa pensavano, di come vedevano il mondo, di cosa pensavano del passato e soprattutto del futuro.
Non sono arrivati tutti nello stesso momento, sono cresciuti con noi, a volte li abbiamo “fatti noi”, sono i nostri figli, nipoti, cugini, compagni di giochi, vicini di casa. Sono talenti in viaggio, che amano esplorare le possibilità date dall’esistenza che noi abbiamo definito in fuga, spronandoli a fuggire prima del tempo. Sono studenti seriali, che hanno capito che il tempo per imparare è illimitato e dura tutta l’esistenza che abbiamo definito bamboccioni, per sminuire i loro sogni, anziché comprenderli. Sono capitani e capitane d’impresa che vorrebbero piegare l’economia ad uno scopo ed essere sostenibili mentre lo raggiungono. Sono persone in divenire che ci siamo presi la libertà di definire “Generazione Perduta” senza considerare che chi si è perso qualcosa forse è chi dettava le definizioni, senza prima fare conversazioni. Avremmo potuto raccontare i loro percorsi per diventare se stessi e invece no, ci siamo concentrati a chiuderli in un cassetto e a raccontare la storia di una generazione spaesata e confusa, priva di futuro, senza renderci conto che quello che ci stavamo perdendo era il loro contributo per crearlo.

E potremmo fermarci qui, a leggere un “j’accuse” di una generazione a se stessa.
E potrebbe essere un’analisi che condividiamo, potremmo averla scritta noi.
Potresti averla scritta tu.
E nulla sarebbe cambiato. E nulla cambierebbe.
Avresti utilizzato 5 minuti di lettura per legittimare che “oggi è tutto un casino e si stava meglio quando si stava peggio” prima di riprendere la tua attività, rammaricandoti per non aver vissuto in un’altra epoca.
E invece no, questa volta non ci fermeremo qui.

O meglio, io non mi fermerò.
Da un lato perché la migliore epoca di tutte è quella che possiamo vivere, dall’altro perché non posso parlare di una generazione che non è la mia, né parlare per loro. Perché se no farei lo stesso errore di fondo – “il peccato originale” – che fino ad oggi in molti hanno fatto per raccontare una generazione che non conoscevano e non avevano alcuna intenzione di conoscere, solo di definire, per legittimare se stessi rispetto a loro. Per legittimare delle scelte da fare al posto loro, mentre sarebbe stato più interessante coinvolgerci, non metterci gli uni contro gli altri.

Perché nella nostra realtà i Millennials non esistono.
Non c’è nulla di semplice, di scontato, di ovvio. Non c’è una massa informe di persone tutte uguali. Non ci sono scelte generaliste ma personali. Non ci sono percorsi già scritti o futuri già definiti. Non ci sono “prodotti per Millennials” che ci potete vendere senza dirci il motivo. Non ci sono scuse che potete darci per non prendere in mano la nostra vita.

Prima o poi succederà e la domanda per voi sarà “siete pronti?” E questo è il bello.
Siamo un Elefante nella vostra stanza che non solo ha deciso di comparire, ma di prendere spazio, prendersi tutto quello di cui ha bisogno per crescere, in modo creativo, sostenibile, inclusivo. Alcune scelte potrebbero non piacervi, ma anziché concentrare i nostri sforzi a distruggervi, conquistarvi o deridervi, la domanda che vi poniamo non è “perché siete ancora qui?” ma “come andiamo avanti insieme?”.
Perché il futuro è il luogo in cui ognuno di noi vivrà il resto della propria esistenza. E in questo futuro ogni essere umano può e deve avere il proprio spazio. Come rendere questo futuro sostenibile e inclusivo è una missione collettiva, in cui ognuno di noi è interdipendente. Forse non saremo in grado di risolvere tutti i problemi, forse ne creeremo degli altri, forse ci scontreremo ma è anche possibile che troveremo soluzioni a cui qualcuno non aveva ancora pensato, attraverseremo confini che nessuno aveva ancora tracciato, impareremo ad incontrarci e a condividere quello che abbiamo.

Io inizierei con il condividere con voi un paio di storie, di ragazzi e ragazze della mia età che hanno deciso di mettersi in gioco, definire la propria vita e i propri orizzonti in modo creativo e onesto: giovani imprenditori, imprenditrici, scienziate, attiviste, sognatori, programmatori, insegnanti, artigiani, artisti, multipotenziali, cittadini e cittadine globali. Ho girato il mondo per incontrarli, ho il piacere di continuare a frequentarli e mi sono accorto che questo viaggio senza fine mi ha portato e mi porta ad essere più fiducioso verso il futuro e gli esseri umani.
E spero che nel condividervi alcune delle loro storie possa portare anche a voi un pizzico di fiducia in più in un elefante con milioni di teste e volti che vuole e può danzare leggero come una ballerina in uno spazio infinito, perché il confine tra la realtà e l’immaginazione è scandito dalla nostra interpretazione di “chi vogliamo essere” più di “come vogliamo essere definiti”. E se interpreteremo il nostro ruolo di esseri umani come “esseri” presenti e attivi forse più che parlare della fine di un secolo inizieremo a vedere le opportunità di essere all’inizio di un nuovo millennio.

di Luigi Cavallito *

(*Luigi Cavallito, in arte “The Stereoteller” è un Global Shaper e ha fatto “Il Giro del Mondo in 80 Giorni” nel 2015 per conoscere e raccontare le storie della sua generazione, nata a cavallo tra gli anni 80 e il 2000. Il racconto di questo viaggio è stato narrato in tempo reale grazie alla partnership con La Stampa ed oggi grazie a un lavoro congiunto con Kkienn si trasformerà in una rubrica e poi in un libro, in cui le storie delle persone incontrate, incrociate con la “mappa dei valori” teorizzata da Kkienn ci aiuteranno a capire come una fetta di “Millennials”, quella più istruita, globalista e aperta, stia anticipando – e a volte plasmando – una metamorfosi in atto in tutta la società, che non fa distinzioni di età, etnia o ruolo sociale.)

(foto credits from the “Barely Legal” exhibit by Banksy © Jason Cosper | Flickr)