Gregor Samsa, un commesso viaggiatore che grazie al suo lavoro mantiene la propria famiglia, si risveglia un mattino nelle sembianze di un orrido e gigantesco insetto. In un primo momento crede che si tratti solamente di un brutto sogno.

Ma nel più famoso racconto di Kafka, per Gregor non si tratterà di un sogno bensì di una condizione esistenziale reale con cui fare i conti. 

Era il 1915 e il mondo non se la passava bene. Ma come tante volte è accaduto i grandi dell’arte e della letteratura non si sono soffermati a dare una descrizione diretta di un’epoca ma ci hanno aiutato a cogliere i sentimenti e i tratti di società che noi non abbiamo avuto modo di conoscere. Società instabili, frenetiche, dotate di uno spirito del tempo che prova a pervadere tutto e tutti e di eccezioni e divergenze.

Le Metamorfosi di Kafka parlano di alienazione, spiazzamento, diversità, difficoltà relazionali, difficolta ad accettare ciò che non conosciamo. Rifiuto e abbandono. Non certo un manifesto per un mondo migliore o una guida motivazionale per superare i propri problemi, ma, visti gli anni in cui sono state scritte, nessuno di noi si sentirebbe di giudicare come blasfemo il sentimento di inquietudine che lo scrittore di Praga all’età di 33 anni ha inscritto nel suo capolavoro. La diversità non era celebrata, ma combattuta, ripudiata.
E anche se oggi le condizioni sono di gran lunga migliori di quelle dell’inizio del secolo scorso e le lotte per i diritti e l’autodeterminazione sono state combattute con tenacia nell’arco dei decenni passati, in più parti del mondo – compresa la nostra – siamo ancora qui a discutere con chi vede la diversità come un attacco alla propria sovranità, al proprio diritto di non cambiare, al proprio status quo.
Siamo ancora qui. E le battaglie non sembrano finite. Non quelle sui diritti, non quelle per rendere il mondo un posto migliore. E in una società come la nostra discutere insieme delle metamorfosi della nostra società e degli individui che la compongono è sempre più indispensabile. Perché osservare e capire sono presupposti essenziali all’agire. E ci possono essere diversi approcci all’una o all’altra azione ma nessuno di noi è un’isola e in un mondo interconnesso la mutazione dell’uno porta necessariamente a una reazione dell’altro. Nessuno escluso.

Tutto cambia perché nulla cambi? Ai posteri l’ardua sentenza. Tuttavia noi, come posteri delle generazioni passate possiamo anche testimoniare, ad esempio, che negli stessi anni drammatici e ricchi di smarrimento e frustrazione che vedevano Kafka cimentarsi con la storia di un uomo trasformatosi in insetto accadde anche che un giovane fisico di soli 4 anni più grande, propose una teoria relativistica della gravitazione, denominata relatività generale, che descriveva le proprietà dello spazio-tempo a quattro dimensioni. Da allora la fisica non è stata più la stessa. E neanche il mondo o la nostra percezione della realtà. Dobbiamo molto ad Einstein, a Kafka e ad Ovidio, Apuleio, Omero, Mary Shelley, Michelle Serre, Seneca, Platone, Aristotele, Newton, Marie Curie, Picasso, Primo Levi, Kant, Baumann, Freud, Jung, Jim Morrison, John Lennon, i Wachowski… Dobbiamo molto ad un sacco di esseri umani che hanno indagato gli esseri e il mondo intorno. La realtà e l’immaginazione. La profondità delle nostre anime e la superficialità delle nostre scelte. Le nostre metamorfosi. Dobbiamo ringraziare ognuno ed ognuna di loro perché ci hanno costretto a porci delle domande, domande scomode, non sempre depositarie di risposte. Domande che però ci hanno fatto progredire. Perché di questo si tratta. Di andare avanti, cercando di capire cosa sta accadendo attorno a noi o dentro di noi e come agire attivamente per dare vita a ciò che pensiamo.

E come spesso accade nella storia umana ogni epoca è costellata di successi e insuccessi, di scoperte e di rinunce, di persone con la testa proiettata verso il futuro e persone che non riescono a sopravvivere al proprio presente. Tutto è relativo. E nonostante questa lezione di “relatività” sia stata resa evidente in più occasioni ancora oggi, 100 anni dopo, ci troviamo in bilico tra chi crede che il futuro sia una catastrofe e chi crede che tutto migliorerà. E tra questi estremi ci siamo noi. Tutti noi, esseri umani con la propria identità che cercano di prendere una posizione in un mondo in costante mutamento in cui più forze contrapposte cercano di conquistare la nostra anima, il nostro tempo o il nostro portafoglio.

Eccoci qui, nel 2017.
Il mondo di oggi è quello degli attacchi terroristici, della mancata crescita e del tasso più alto di disoccupazione giovanile da quando esiste un tasso di disoccupazione.

Concordate con la descrizione?

Perché per quanto mi riguarda il mondo di oggi è anche quello della fisica quantistica, della singolarità, della conquista interplanetaria, della coltura acquaponica, della criptovaluta e della realtà aumentata. Un mondo in cui un ragazzo africano può fare acquisti attraverso il suo smartphone e pagare con m-pesa. In cui una minorenne pakistana può prendere il Nobel per la Pace, in cui una ragazza nata nel 1997 affetta da meningite può diventare campionessa olimpica nel fioretto senza braccia e gambe.

“Il mondo è come lo fai, dentro la testa lo sai” cantava nel 2000 Alberto D’Ascola quando all’epoca era il frontman dei bergamaschi Reggae National Tickets e il mondo era appena entrato in un nuovo millennio. All’epoca sognava la Jamaica e Bob Marley. E il sogno era così denso per lui da convincerlo a lasciare l’Italia e trasferirsi nell’isola caraibica, con soli 2.000 euro in tasca, nessun contatto e poche prospettive di sfondare in un’isola in cui “un bianco che fa reggae” non è proprio una storia che si sente tutti i giorni. Eppure nel 2011 viene invitato a partecipare come candidato al M.O.B.O. (Music of Black Origin) Awards nella categoria “Best Reggae Act 2011”, ovvero il massimo riconoscimento a livello mondiale attribuito agli artisti reggae di spicco nell’ambito della black music durante l’anno in corso.Alberto, da un po di anni conosciuto con il nome Alborosie,  trionfa sul palco di Glasgow vincendo il prestigioso premio davanti ad artisti di fama mondiale quali Nas, Damian Marley, Mavado, Khago, diventando il primo artista bianco a vincere un premio dedicato alla musica Black e consacrandosi definitivamente tra i maggiori esponenti della scena reggae mondiale.

Cosa hanno in comune Kafka, Einstein e Alborosie?
Alcuni dicono che esistano tre tipi di persone al mondo: quelli che fanno accadere le cose, quelli che le guardano accadere e quelli che dicono “cos’è accaduto”?

Ecco, a noi ogni giorno, di fronte alla metamorfosi della società ci viene posta una domanda “che tipo di persona vogliamo diventare?” e non è una domanda a cui possiamo rispondere una volta per tutte perché il nostro mondo non è un fermo immagine, non lo è mai stato e in questi anni sta subendo un’accelerazione che alcuni definiscono esponenziale. E per questo ogni volta che proviamo a dare una risposta o che ci fermiamo per contemplare un’immagine ce n’è un’altra che ci passa davanti e cambia la nostra percezione della realtà e a volte la realtà stessa.
E questo ci confonde, ci fa sentire piccoli in un mondo di giganti.

Dove stiamo andando? Che ne sarà di noi? Stiamo facendo le scelte giuste?
Sono domande che non possiamo smettere di porci. Domande per cui è importante studiare la metamorfosi giorno per giorno. Per non cadere preda di novelli oracoli o Cassandre, per non essere schiavi del tempo, per non soccombere sotto una cascata di fake news e non farci lasciare in un angolo in un mondo che cambia. E soprattutto per non svegliarci un giorno e dire “cos’è accaduto?” Abbiamo un’opportunità unica, figlia del tempo in cui viviamo. Possiamo svegliarci oggi e confrontarci, scambiarci pareri, idee e darci una mano. Immaginare soluzioni collettive a problemi individuali e contributi personali a progetti grandi come il mondo volti a rendere il futuro un luogo piacevole in cui vivere e prosperare. Figlio della metamorfosi che vogliamo.

Post-fazione
L’11 giugno 1916 compariva sul Prager Tagblatt un breve testo intitolato La contrometamorfosi di Gregor Samsa (Die Rückverwandlung des Gregor Samsa), poche pagine in cui il protagonista del racconto kafkiano (portato fuori dalla città e abbandonato in cima alle immondizie, ritrova una notte le sembianze umane e ritorna in vita, riguadagnando all’alba la città, conscio del fatto che le sofferenze patite lo hanno reso un uomo, pronto a ricominciare il percorso della propria esistenza.  Il giovanissimo autore, Karl Brand, malato di tubercolosi e impossibilitato a lavorare, iniziò a nutrire una sorta di empatia per il protagonista de La metamorfosi e tormentato dai sensi di colpa per il proprio pur involontario parassitismo e per i soldi che i genitori dovevano spendere per le cure, pensò di trovare una soluzione in questo tentativo letterario. Il potere dell’immaginazione non ha potuto vincere la tubercolosi ma Karl Brand non ha lasciato alla malattia la possibilità di prendere il sopravvento sulla sua psiche. Sulla sua facoltà di creare e raccontare, nonostante tutto, una storia di speranza. Una di quelle in cui non ci è dato sapere se il protagonista “visse felici e contenti” ma almeno ebbe la possibilità di vivere, una metamorfosi dopo l’altra. 

di Luigi Cavallito